15 Mag Un’intervista con il direttore artistico Elio Di Pace
Di recente c’è stato un incremento enorme di festival. Può sembrare confusionario, eppure ha una logica. Pensa se ogni paesino, in tutta Italia, avesse il suo festival. Sarebbe una cosa meravigliosa per la cultura del cinema breve (e lungo) nel nostro paese e per la sua industria. Cosa ne pensi?
Sarebbe bellissimo. Un festival per ogni piccola comunità. Un’utopia molto accattivante, anche perché può darsi che una diffusione del cinema così endemica, così (passami il termine) coatta sul territorio riuscirebbe finalmente a incuriosire il pubblico, si imporrebbe come un’alternativa concreta allo stare a casa a guardare la tv. Questo ovviamente sempre ferma restando una selezione di alto livello, che abbia criterio, qualità, programmazione. Gli spettatori devono andare via avendo visto immagini memorabili, storie che ricorderanno, e i registi devono sapere di aver parlato a tutti, ma veramente a tutti. E soprattutto – questa è una cosa alla quale tengo moltissimo – si deve badare alla giusta accoglienza, a una cura meticolosa della location, alla qualità della proiezione e alla sistemazione ottimale per il pubblico. Non se ne può più di proiezioni su teli di terza mano che ingrigiscono i film e ne mortificano la qualità fotografica, di sedie di plastica scomode, di altoparlanti prestati dall’amico del cugino… Una buona location e una buona qualità di proiezione non sono utopie. Sono il requisito minimo.
Cinema breve italiano: un settore ancora acerbo, indietro rispetto alle altre industrie europee, asiatiche e americane. Perché, secondo te? Questione artistica, sociale o culturale?
Mi verrebbe da dire culturale, perché di registi di talento, giovani e meno giovani, ci sono, e anche in grandi ristrettezze riescono a fare i loro film. C’è chi riesce dal nulla a girare lungometraggi, figuriamoci quanto alla portata possa essere oggi un cortometraggio. Purtroppo non c’è una ricetta per fare un salto di qualità immediato, per metterci al pari della considerazione e del mercato del cortometraggio francese o canadese: sulla questione si sono arrovellati già tanti prima di me, e tanti grandi festival provano a dare inutili scossoni. Io poi, se ci penso bene, non sono neanche tanto d’accordo sul fatto che il cinema stia diventando una forma troppo democratica, troppo alla portata, chiunque può produrre girare e montare un corto e quindi avremmo centinaia e centinaia di autori ogni giorno in ogni parte del Paese, e questo potrebbe costituire un problema. Ben vengano le buone idee, sempre. Se qualcuno ha voglia di fare un corto, anche se non vorrà per forza fare il regista nella vita, lo faccia: perché potremmo rimanere sorpresi da intuizioni cinematografiche totalmente libere, senza sovrastrutture imposte da scuole o da anni di cinefilia militante, e alla fine nella migliore delle ipotesi avremmo visto qualche gesto d’autore sorprendente oppure qualcuno ci aprirà gli occhi su un mondo o una storia che non conosciamo. Insomma, potremmo cominciare da qui. Potremmo cominciare con la voglia di vedere cose nuove. Sempre.
Che cinema vuoi supportare? Qual è il tuo canone? Che tipo di cinema, invece, pensi abbia uno spazio sproporzionato o inadatto?
Vorrei supportare tutto il cinema consapevole, il cinema che fa delle proposte: visive, narrative, stilistiche. Esiste tanto cinema “col pilota automatico”, “sceneggiature filmate” si usa dire qualche volta. Ecco, sarebbe bello se tutti i film fossero anche una riflessione su se stessi, se si riuscisse a intravedere un’urgenza autentica dietro alle immagini, e non la pratica sterile di girare il corto pensando che sia il biglietto da visita per altri scopi.
A cura di Andrea Gatopoulos